Monsignor Francesco Spadafora d. March 10, 1997, at the age of 84 Editor of Rivista Biblica, official organ of the Italian |
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Preterist Eschatology in the 16th through 18th Centuries
Gesù e la fine di Gerusalemme (Jesus and the Destruction of Jerusalem). This work deals solely with Jesus’ prophecy concerning the destruction of Jerusalem, without any references or allusions to the end of the world. Fr. Benoît, in his review published in Revue Biblique (#59, 1952, starting on p.119), wrote that he found “this exegesis to be excellent,” and he “approved of it completely.” C. Spicq, in Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques (#36, 1951), applauded the work, saying that its “necessity will increase as time goes on.”
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[Partendo dal documento conciliare Nostra Ætate, mons. Spadafora fa notare come esso sia stato concepito sulla base delle pressioni esercitate dagli ambienti ebraici.]
«Papa Giovanni XXIII nel giugno 1960 riceve in udienza l’israelita Jules Isaac che dinanzi a lui perora la causa del suo popolo, secondo le tesi già formulate nel suo libro Gesú e Israele, e lo manda dal Card. Bea. Incominciano cosí i contatti con i rappresentanti piú noti del giudaismo; e nell’udienza del 18 sett. 1960 riceve dal Pontefice l’incarico di preparare per il Concilio un documento sulla delicata materia. Era l’inizio del cammino che dopo cinque anni portera alla Dichiarazione conciliare.
«Per superare la diffidenza, le difficoltà manifestatesi e per ben disporre favorevolmente i Padri, il Card. Bea preparò per La CiviltàCattolica un suo ampio articolo dal titolo impegnativo “Gli Ebrei sono deicidi e maledetti da Dio?“. L’articolo doveva simultaneamente apparire sulla rivista tedesca Stimmen der Zeit e sulla Nouvelle Revue Théologique di Lovanio. La Segreteria di Stato però non ne ritenne opportuna la pubblicazione. Il Card. Bea, tuttavia, cedette all’insistenza del direttore della rivista tedesca e l’art. vi apparve egualmente sotto la firma del P. Ludovico von Hertling, s. j., già prof. di Storia ecclesiastica alla Pontificia Università Gregoriana.
«Quindi, l’articolo, tradotto in italiano e fatto stampare da un industriale di Genova, anche in varie lingue, fu distribuito ai Vescovi, al momento opportuno per la presentazione dello schema in Concilio. E il suo influsso fu notevole e davvero determinante.» [p. 11-12]. »
[Che cosa argomentava il Card. Bea?]
«Promulgato il testo definitivo (28 ott. 1965) della Dichiarazione Nostra Ætate, il Cardinale Agostino Bea, l’artefice primario di essa, – come diremo, tutto zelo per il giudaismo -, ne scrisse in difesa, cercando di rispondere punto per punto alle argomentazioni ed ai testi addotti da S. Ecc. Carli nell’art. su citato [La questione giudaica davanti al Concilio Vaticano II, in Palestra del Clero, 44, 1965, pp. 185-203]. Il popolo ebraico nel piano divino della salvezza, in La Civiltà Cattolica, 2769, 6 nov. 1965, pp. 209-229.
«Non si parli di “deicidio”: “Non vi è dubbio che la condanna e l’esecuzione di Cristo costituiscono in se stesse, oggettivamente parlando, un crimine di deicidio, perché Gesú è Uomo-Dio”. Ma “i capi del Sinedrio e il popolo” non conoscevano “chiaramente la natura umano-divina del Cristo”. In essi c’era “una certa ignoranza: questa riguardava in primo luogo il punto piú difficile a comprendersi per un ebreo, cioè la divinità di Gesú”. (I corsivi sono nel testo).
«E il Card. Bea cita le parole di s. Pietro, “il quale, dopo aver rimproverato ai giudei di Gerusalemme: ‘Voi uccideste l’autore della vita’, quasi subito aggiungeva: ‘Ora, o fratelli, io so che voi operaste per ignoranza, come anche i vostri capi’” (Act. 3, 15-17). Cita s. Paolo (Act. 13, 27); e le parole di Gesú: ‘Padre, perdona loro, perché non sanno quel che fanno’ (Lc. 23, 34). “Non è possibile – afferma il Card. -, nel breve spazio concessoci, istituire una esauriente interpretazione di questi testi” (p. 213). La stessa osservazione o ammissione fa a p. 217, a proposito dei testi degli Atti degli Apostoli e dei brani evangelici citati (p. 215 s.) per la domanda “responsabilità collettiva del popolo ebraico?” da lui negata: “Naturalmente per rispondere in modo esauriente al nostro quesito bisognerebbe istituire un’interpretazione particolareggiata dei singoli testi, il che non è possibile nello spazio concessoci”.
«Sicché abbiamo soltanto i testi citati, presi fuori dal loro contesto, con l’interpretazione che l’Eminente Autore loro attribuisce, per le sue tesi.
«Le parole di Gesú in croce – commenta l’Autore – sono “una vera scusante a favore degli ebrei. I testi citati però non si possono considerare come un’assoluzione propriamente detta, e tanto meno completa, dei responsabili della morte di Gesú; per esempio, la domanda di perdono di Gesú non avrebbe ragione di essere, se ci fosse stata una ignoranza completa e quindi una completa assenza di colpa”. Ignoranza dunque della divinità di Gesú. Eppure i testi evangelici, inequivocabilmente, attestano una grave ignoranza “colpevole”: si sono rifiutati di credere. E implicitamente lo ammette il Card. Bea con la seguente precisazione: “Con ciò non vogliamo certo negare l’efficacia delle sufficienti dichiarazioni di Gesú riguardo alla sua divinità ed il valore delle prove fornite in favore di essa. Ma da questa sufficienza – aggiunge – segue solo che l’ignoranza poteva essere colpevole…” (p. 214).
«Basti qui ricordare le parole di Gesú: Se non fossi venuto e non avessi loro parlato, non avrebbero colpa; ma ora non hanno scusa per il loro peccato. Se non avessi tra loro compiuto opere, che nessun altro ha fatte, non avrebbero colpa; ma ora, benché abbiano veduto, pure odiano e me e il Padre mio. (Giov. 15, 18-25). E nel c. 10 ai Romani, s. Paolo afferma la stessa cosa per “i Giudei responsabili della loro riprovazione” (A. Vaccari), nei vv. 18-21. “Rimane – continua il Card. Bea – la responsabilità piú generica della condanna dell’innocente, conosciuto come un Maestro santo e magari anche come profeta, anzi come il profeta, il Messia promesso”. È essenziale ora stabilire “se in una tale responsabilità è coinvolto il popolo e nel caso di risposta affermativa, in quale senso”. E ammonisce: “È importante conservare la piú assoluta fedeltà al racconto dei Vangeli”. [pp. 8-10] »
[Dopo aver citato i testi proposti del Card. Bea (Act. 2, 22 s.; 2, 36 s.; 3, 15; 5, 30; 7, 52; 13, 27; I Thess. 2, 14 ss.), mons. Spadafora fa notare.]
«…Non c’è dubbio, qui s. Paolo parla “degli ebrei in generale”. Tuttavia il Card. restringe ai soli abitanti di Gerusalemme gli altri testi precedenti; ma arbitrariamente e in contrasto con tutto il contesto: s. Pietro, ad es., in Act. 2 parla ai Giudei convenuti a Gerusalemme da tutte le regioni dell’impero romano: cf. vv. 5-13, ‘Giudei d’ogni nazione…; Parti…; abitanti della Mesopotamia, ecc.’. Cita quindi, per il minacciato castigo di tutto il popolo: la parabola dei vignaioli Mt. 21, 43-46; il lamento di Gesú su Gerusalemme Lc. 19, 43 s.; e l’annunzio del castigo che cadrà “su questa generazione” Mt. 23, 31-36. E si chiede: “Responsabilità collettiva del popolo ebraico?“. La sua risposta è stranamente negativa; in aperto conflitto con i testi, restringe ogni responsabilità ai capi ed a pochi abitanti di Gerusalemme: nega il principio della solidarietà collettiva.
«Ha avuto buon gioco, S. Ecc. Carli (in Palestra del Clero, 15 marzo 1966, pp. 333-355, e 1 aprile, pp. 398-419: Chiesa e Sinagoga), nel documentare la validità essenziale del suo primo articolo [La questione giudaica davanti al Concilio Vaticano II, in Palestra del Clero, 44, 1965, pp. 185-203], nella fedeltà alla interpretazione dei testi della Sacra Scrittura; e, comunque, nel rilevare gli arbitri e l’infondatezza delle deduzioni tratte dal Card. dai medesimi testi. Quanto alla validità del principio della “responsabilità collettiva” in atto in tutto il Vecchio Testamento, “per cui l’intero popolo risponde dinanzi a Iahweh della colpa dei suoi rappresentanti”, egli cita il mio studio, presentato come tesi di laurea, sotto la direzione dei miei professori, A. Bea e A. Vaccari, Collettivismo e Individualismo nel Vecchio Testamento, Rovigo, 1953, pp. XXIV – 398, e il mio commento ad Ezechiele, ed. Marietti, 1951, p. 10 s.; 152 s. (vedi art. cit. 1 apr. 1966, p. 405). “Soltanto il principio della responsabilità collettiva può, in particolare, dar sufficiente ragione del fatto che il rimprovero degli Apostoli venga rivolto anche ai Giudei di altre città palestinesi o della diaspora, anzi persino ai proseliti: e forse a gente che per la prima volta sentiva parlare di Gesú” (n. 408). Ed in nota (45), “Arbitrariamente il Baum, op. cit., restringe Act. 2, 14 agli abitanti della Giudea (p. 277, nota 2) e Act. 2, 40 ai Gerosolimitani (p. 134)…” [pp. 10-11].
«[…]
«Il libro [di Jules Isaac] fu tradotto in italiano dalla signora Ebe Finzi Castelfranchi: Gesú e Israele, ed. Nardini, Firenze, 1976, pp. 461; dalla nuova edizione francese del 1970.
«Il grosso volume, dopo la Premessa de L’Amicizia ebraico-cristiana di Firenze (p. 5), reca la Presentazione dell’edizione italiana (pp. 7-10), ad opera del domenicano P. Pierre-M. de Contenson, segretario della Commissione per le relazioni religiose con l’ebraismo; e la Introduzione (pp. 11-16) del prof. Albert Soggin della Facoltà Valdese di Teologia. Il Padre domenicano tesse l’elogio di “questa opera… un vero e proprio ‘classico’ fra quelle opere che hanno contribuito all’instaurazione del dialogo ebraico-cristiano”. E ne fa espressamente la fonte “degli insegnamenti di Nostra Ætate e degli Orientamenti del ° dicembre 1974 da parte delle autorità centrali della Chiesa Cattolica”.
«La fonte comune al Baum e al Card. Bea è appunto questo libro di Jules Isaac.
«Il prof. Soggin, invece, fa anche cenno, nella sua Introduzione ad “elementi meno positivi” presenti nel libro: “La problematica dell’Autore – scrive ad es. a p. 13 ss. – è quella della guerra e parte quindi dalla spinta traumatica, sul piano generale come su quello personale, prodotta dai campi di sterminio”; … nei quali “si trovavano anche migliaia di cristiani”.
«Per comodità dei lettori, riportiamo qui brani significativi del lungo accurato esame critico fatto dal ben noto esegeta il P. Pierre Benoit nella recensione al libro dell’Isaac, nella prestigiosa Revue Biblique, 56 (1949), pp. 610-613.
«”Israele – sintetizza P. Benoit – non ha rigettato Gesú; Gesú non ha riprovato Israele; l’idea di un ‘deicidio’ commesso dalla massa del popolo giudaico e che l’avrebbe votato al castigo di una vita errante tra i popoli, è un mito inventato dalla teologia cristiana e che non è conforme alla realtà della storia; disgraziatamente essa è all’origine di un antisemitismo secolare e sarebbe tempo che la Chiesa reprimesse queste affermazioni che han causato e causano le persecuzioni di giudei innocenti…; questa è la tesi difesa in questo libro da Jules Isaac. Egli la sviluppa in 21 proposizioni distribuite in quattro parti”. Quindi passa all’analisi dei punti piú significativi. Le prime proposizioni “sfondano una porta aperta”; tutti sono d’accordo: Gesú è nato giudeo, da una madre giudea… La nona proposizione (o nono argomento della ed. it., pp. 68-89) invece afferma che Gesú non ha mai sognato di abrogare la legge mosaica. “Col sacrificio della Croce – conclude il P. Benoit la sua risposta – Gesú ha soppresso la Legge, come insegna magnificamente san Paolo (particolarmente cfr. Gal. e Rom.), e, quando la Chiesa primitiva ha sancito tale affermazione per la sua universalità, l’ha fatto sotto l’azione dello Spirito Santo, che non è altro che lo Spirito di Gesú: que M. Isaac veuille bien accepter cette vue ‘theologique’, essentielle à la foi chrétienne” [che il sig. Isaac accetti di buon grado questa veduta ‘teologica’, essenziale per la fede cristiana].
«Ancora: non è vero che “la massa del popolo giudeo” ha rigettato Gesú, per la buona ragione che la maggioranza di questo popolo si trovava fuori della Palestina e che quelli che si trovavano in Palestina, nella maggior parte, sentirono parlare di Gesú in maniera indiretta e molto vaga (undicesimo argomento, pp. 107-111). Furono i capi, i componenti del Sinedrio, che vollero la morte di Gesú a dispetto della simpatia delle folle per Lui (pp. 112 e ss.). Cfr. l’art. del Card. Bea e la Dichiarazione Conciliare.
«Ma questi capi – chiede il Benoit – non rappresentavano Israele? Il sig. Isaac lo nega. A torto. “Essi di fatto detenevano l’autorità spirituale d’Israele (Mt. 23, 2). La fable, si fable il y a, – continua a ragione con forza il P. Benoit – n’est-elle pas dans cette histoire qu’on veut nous faire croire d’un peuple juif conquis et enthousiasmé par Jésus, mais dépouillé malgré lui de ce Prophète par un clique de politicards e de faux dévots, agissant sans mandat et contre ses intentions? [La favola, se vi è, non è proprio costituita da questa storia che ci si vorrebbe far credere di un popolo giudaico conquistato ed entusiasmato da Gesú, ma suo malgrado privato di questo Profeta da una cricca di politicanti e di falsi devoti, operanti senza alcun mandato e contro le intenzioni del popolo?]. Ma come spiegare allora che il popolo giudaico una volta passato il primo momento di sorpresa, non abbia aderito a questo caro Profeta che aveva ora l’aureola del Martire? Come spiegare che esso abbia ratificato, completamente, in pieno, la sentenza dei suoi capi, opponendo dappertutto, e questa volta mediante la massa dei suoi membri, in Palestina e nella Diaspora, questa resistenza feroce alla Chiesa nascente, continuando nei discepoli di Gesú l’opera di persecuzione a morte?” (p. 610 s.).
«Un’altra ragione addotta dallo Isaac, per cui il popolo giudaico non ha potuto rigettare il Messia Gesú e commettere un ‘Deicidio’, 6 che esso non ha visto in Lui il Messia e ancor meno il Figlio di Dio (vedi ed. it., pp. 147-189). Lo sostiene contro tutti i piú autorevoli esegeti cattolici e protestanti, usando degli Evangeli sinottici ad usum delphini e negando ogni valore all’Evangelo di san Giovanni. Pur limitandosi ai sinottici, il P. Benoit cosí conclude: “Ce que personne ne peut ignorer, c’est qu’il [Gesú] se dit Envoyé de Dieu, qu’il le prouve per ses œuvres… [Ciò che nessuno può ignorare è che Egli si dichiarò Inviato di Dio, e lo provò con le sue opere] La folla giudaica che l’ha conosciuto non ha potuto ignorarlo, ma volendo seguirlo quando si aspettava un trionfo, l’ha abbandonato quando ha visto la croce. Ciò non hanno ignorato soprattutto i capi giudaici, ma non hanno voluto saperne di un Maestro nuovo e di una vita nuova aperta a tutti. Abbandonato dalla folla, rigettato dai capi, Gesú è stato veramente respinto dal suo popolo, il popolo giudaico, anche se, o, piuttosto perché, questo popolo non ha voluto rinunciare a sé per credere in Lui” (p. 612).
«[…]
«“Il ressort bien des quatre évangeles que, si les Romains ont ratifié et exsécuté la sentence de mort de Jésus, c’est bien du côté des Juifs qu’elle est venue” (Benoit, p. 612) [Dai quattro Vangeli si comprende chiaramente che, se i Romani hanno ratificato ed eseguito la sentenza di morte di Gesú, questa sentenza è venuta certamente da parte degli Ebrei].
«Concludendo, il P. Benoit rileva che J. Isaac “parla di Gesú con un rispetto e una ammirazione che toccano il cuore cristiano. E fa voti che i cristiani ripetino le parole di Gesú: ‘Padre, perdona loro, essi non sanno quello che fanno’. Mais cette prière même maintient en toute justice que leurs pères ont ‘fait’ quelque chose de mal et qu’ils ont besoin de ‘pardon’. Ce pardon consistera pour eux à retrouver, par la misericordie du Père, cette grâce du vrai Messie Jésus qu’ils ont refusée quand elle leur était offerte”. (p. 613) [Ma questa stessa preghiera conferma giustamente che i loro padri hanno fatto qualcosa di male e che hanno bisogno di perdono. Questo perdono consisterà nel ritrovare, con la misericordia del Padre, quella stessa grazia del vero Messia Gesú che rifiutarono quando venne loro offerta].
«Del P. Benoit ancora sono le critiche sostanziali al libro del P. Gregory Baum, The Jews and the Gospel, 1961 – già cit. – nella lunga recensione in Revue Biblique, 71 (1964), pp. 80-90.
«Va infine notata la trattazione che del “problème redoutable” fa una giudea convertita, la sig.ra D. Judant, Les deux Israël. Essai sur le mystère du salut dd’Israëlselon l’economie des deux Testaments, ed. du Cerf, Paris, 1960, pp. 249. Cfr. la recensione del P. Pierre Benoit in Revue Biblique, 68 (1961), pp. 458-462. “Rifiutando Gesú, Israele s’è diviso in due; la parte che ha accettato il Cristo è divenuta la Chiesa, il vero Israele, compimento del V. T. L’altra parte, che rifiutato il Cristo, con un peccato ‘collettivo’, è l’Israele infedele, che ha perduto la sua elezione, i suoi privilegi, come gruppo è al di fuori della salvezza, come gruppo s’intende, perché ci è ignota la responsabilità di ciascun’anima individuale.” Interpreta quindi Rom. 11 di una conversione progressiva dei singoli, e non necessariamente della totalità dei giudei.
«“Sarebbe illusorio e falso – scrive il Benoit, p. 459 – pretendere che la seconda elezione del ‘nuovo Israele’ ne resti intatta (per il giudaismo) e che l’Israele attuale conservi proprio tutti i suoi ‘privilegi’, come un altro ‘popolo di Dio’, parallelo alla Chiesa, dal quale questa dovrebbe attendere l’integrazione per disporre infine di tutti i suoi mezzi di salvezza”. La predilezione d’amore da parte di Dio, nel passato d’Israele, influisce tuttavia sul futuro del suo destino; assicura alla sua conversione una risonanza particolare: se Dio si rallegra per il ritorno del peccatore (Lc. 15, 7) e del figliol prodigo (Lc. 15, 32), cosa non sarà di questo prodigio: è il primogenito che riprende il suo posto nel focolare! (Rom. 11, 15)…
«Pertinente è l’osservazione della Judant a p. 152: “La carità è inseparabile dalla verità, e noi (cristiani) abbiamo un dovere di verità da compiere”.
«Spetta ad una sana esegesi, scevra da ogni accenno polemico, compiere questo dovere di verità nella carità.… [pp. 20-23].
Mons. Francesco Spadafora è passato a miglior vita il 10 marzo 1997, all’età di 84 anni.
La sua è stata una vita spesa in difesa della dottrina tradizionale della Santa Chiesa, soprattutto in vista degli errori che si sono macroscopicamente manifestati sulla fedele trasmissione del depositum fidei, a partire dal Concilio Vaticano II. La sua opera di studioso, espressasi tramite centinaia di articoli apparsi su diversi giornali e riviste e tramite piú di 30 pubblicazioni, è stata per anni un punto di riferimento prestigioso per tutti coloro che hanno sentito il bisogno di rimanere ancorati alla dottrina tradizionale della Chiesa.
Lo rimarrà sicuramente in avvenire, soprattutto in riferimento alla puntuale messa a punto da lui condotta contro le distorsioni dottrinali scaturite dalla cosiddetta “nuove esegesi” dei testi scritturali.
Una delle caratteristiche del suo lavoro è la prevalente mancanza di opinioni personali, egli ha sempre curato che parlassero i testi e i documenti dottrinali della Chiesa; cosa che poteva procurargli, com’è avvenuto, solo il fastidio e il misconoscimento della corrente modernista.
Dal capitolo XV – Il post-Concilio frutto dell’equivocità del Concilio
“Libertà” d’errore
Frutto degli equivoci del Concilio è nel post-concilio il trionfo della “nuova” esegesi ovvero dell’esegesi neo-modernistica, che – cardinal Martini in testa – nega l’inerranza assoluta della Sacra Scrittura, l’autenticità e storicità degli Evangeli, respinge la guida del Magistero infallibile della Chiesa, ma proclama di essere in tal modo fedele alla Divino Afflante Spiritu di Pio XII (ridotta a pochi brani neo-modernisticamente interpretati), all’Istruzione della Pontificia Commissione Biblica (preparata e fatta approvare dal card. Bea), e alla Dei Verbum del Vaticano II (ridotta anch’essa a quelle parti che possono servire alla causa dei neo-modernisti e faziosamente interpretata).
L’interpretazione neo-modernista della Dei Verbum è stata e viene proposta dai gesuiti: da padre Ignazio de la Potterie S. J. ai suoi confratelli de La Civiltà Cattolica; tutti sostanzialmente concordi con il padre R. Rouquette S. J., che entusiasta scriveva nel 1965: «Lo schema sulla Rivelazione nella sua forma definitiva resta un grande testo liberatore che non chiude alcuna porta; esso consacra il lavoro cosí considerevole della esegesi cattolica contemporanea [quella, s’intende, che nega i dogmi fondamentali dell’esegesi cattolica]. Esso lascia la via aperta alla ricerca. I Romani [i gesuiti del Biblico, Lyonnet e Zerwick in particolare] che erano stati cosí violentemente e cosí ingiustamente attaccati alcuni anni prima, esprimono unanimamente la loro soddisfazione» (Études 1965, p. 680).
A sua volta, il card. Carlo Maria Martini, attuale cardinale di Milano e già rettore del Pontificio Istituto Biblico, dalle pagine de La Civiltà Cattolica proclamava enfaticamente: «La Dei Verbum, in una sintesi, riprende le autorevoli indicazioni delle encicliche [in ogni caso, una sola: la rivoluzionaria, secondo il Biblico, Divino Afflante Spiritu] e non solo toglie ogni possibile dubbio sulla validità dell’uso di questi metodi moderni nella esegesi cattolica, ma indica anche le vie di un ulteriore approfondimento» (Alcuni aspetti della Dei Verbum, ne La Civiltà Cattolica, 7.5.1966, pp. 216-266; in particolare pp. 211-226: Il Concilio e la scienza biblica). E dopo aver propugnato la «sua» interpretazione del capitolo V della Dei Verbum (inerranza e storicità) conclude, ancor piú entusiasta: «Si può dire che in questo capitolo l’odierno movimento biblico ha trovato il suo piú alto riconoscimento e la sua magna charta, che gli permetterà di permeare efficacemente e liberamente [libertà va cercando, ma se l’è presa già da tempo!] tutti gli aspetti della vita della Chiesa…».
Libertà! La libertà di ricerca nell’esegesi cattolica c’è sempre stata. Basti ricordare l’opera compiuta nel campo degli studi biblici dal padre M. J. Lagrange O. P. con la sua École Biblique e dallo stesso Istituto Biblico fino al 1950 circa (V. École Biblique e Istituto Biblico nel Dizionario Biblico (ed. Studium) da me diretto). Ma non è la libertà di ricerca nello studio scientifico che i «nuovi esegeti» van cercando. Essi, accecati dalla loro infatuazione per i sistemi razionalistici protestantici, chiedono, ed oggi credono di aver conseguito la «libertà» dalla guida luminosa del Magistero infallibile della Chiesa, cui ogni esegeta cattolico è obbligato ad attenersi dai concili Tridentino e Vaticano I, ecumenici e dogmatici, i quali dichiarano che «nelle cose di fede e di costume, appartenenti alla edificazione della fede cristiana, bisogna tenere per vero senso della Sacra Scrittura quello che ha tenuto e tiene la Santa Madre Chiesa, cui compete giudicare del vero senso e della vera interpretazione della Sacre Scritture; perciò a nessuno è lecito interpretare la Sacra Scrittura contro questo senso (della Chiesa) o anche contro l’unanime consenso dei Padri» (Vaticano I, Costituzione De Fide Catholica, D. 3007. V. Giorgio Castellino, S. D. B., La Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, p. 208. Cf. F. Spadafora, Esegesi e Teologia, Il Principio fondamentale per la sana esegesi, in Renovatio 1967, pp. 233-264, e in Palestra del Clero, nn. 12-13, 1972).
Silenzi ed omissioni del card. Martini
Per il card. Martini e i «nuovi esegeti» il Vaticano II nella Dei Verbum avrebbe sancito due… eresie:
1) l’inerranza della Sacra Scrittura non è assoluta, ma limitata alla «verità salvifica»;
2) gli Evangeli non sono libri storici né sono stati scritti da Matteo, Marco, Luca e Giovanni, bensí da ignoti «redattori».
Quali le argomentazioni del card. Martini? Guardate – egli dice in sostanza – «le successive formulazioni che il testo ricevette nei diversi schemi, in particolare il n. 11» [sull’inerranza]; dalla professione netta dell’inerranza si passa alla «verità salutare» e infine alla «verità […] consegnata nelle Sacre Lettere per la nostra salvezza»; allo stesso modo, dall’affermazione chiarissima sull’autenticità e storicità degli Evangeli si passa al testo attuale, che fa sua l’Istruzione del card. Bea, la quale approva la Formengeschichte ed apre cosí la via alla negazione dell’autenticità e storicità degli Evangeli.
Cicero pro domo sua. Nessun accenno da parte del Martini alle subdole manovre della Commissione dottrinale, alla tenace opposizione di centinaia di Padri culminata nel ricorso al Papa, nessun cenno all’intervento di Paolo VI documentato anche dal gesuita Caprile (il cui articolo il Martini cita solo in nota), affinché fosse riaffermata l’inerranza assoluta e poi la piena storicità degli Evangeli con un testo non equivoco, come era troppo chiaramente il testo presentato in aula per la votazione (V. sí sí no no, agosto 1994, pp. 4-5). Il Martini, insomma, finge d’ignorare che le successive formulazioni, tutte insoddisfacenti, su cui egli poggia la «sua» interpretazione della Dei Verbum, furono opera non del Concilio, ma dei membri neo-modernisti (quasi tutti ex alunni del Biblico), eletti nella commissione teologica dai Cardinali e Vescovi dell’«Alleanza Europea».
[…] A questo punto il lettore può valutare l’importanza fondamentale delle commissioni conciliari e comprendere sempre meglio i cardinali Liénart, Frings, Lefèbvre (di Bruges, da non confondere con mons. Lefèbvre), Léger, Montini, Tisserant, ecc. esponenti maggiori della cosiddetta «Alleanza Europea», si diedero tanta cura di immettere in ciascuna di esse, e in particolare nella Commissione teologica, i propri elementi «liberali» o neo-modernisti (V. sí sí no no, agosto 1994, p. 2). Questi riuscirono in detta commissione ad avere la prevalenza ed inoltre, protetti e decisi, ebbero il sopravvento sugli altri membri, che avrebbero potuto e dovuto contrastarli, ed invece «pacifici» o ignari, si adattarono al compromesso.
Ne ho personale esperienza. Membro della commissione teologica era sua ecc.za E. Florit, Vescovo in attesa del cardinalato. Ex alunno del Biblico e già professore di Sacra Scrittura al Laterano, aveva scritto contro la Formengeschichte: «non si dà [in essa] parte alcuna ad un intervento soprannaturale nella composizione dei Vangeli, quindi ispirazione divina e conseguente inerranza sono escluse» (E. Florit, Il metodo della “storia delle forme” e la sua applicazione ai racconti della Passione, 1935, pp. 227-230). Discutevamo una sera, durante il concilio, appunto sulla ispirazione dei Libri Sacri; «Lei ha ragione – concluse in risposta alle mie osservazioni sul testo conciliare – ma dobbiamo dare un contentino all’altra parte, agli oppositori». La diplomazia, il compromesso, invece di proporre integra e precisa la dottrina cattolica che emerge cosí limpida dai documenti del Magistero!
[…]
Porta aperta all’errore
«Quando si vuol giocare sulle ambiguità, niente di meglio che confondere i punti fondamentali nel mare di tante altre considerazioni» scrisse mons. P. C. Landucci. E il prof. Romano Amerio bene illustra l’«ermeneutica neoteorica» post-conciliare ovvero l’interpretazione neo-modernistica del Concilio (R. Amerio, Iota Unum, R. Ricciardi ed., Roma-Napoli 1985, p. 93).
«Ancor piú rilevante è il fatto che il metodo del circiterismo [circiterismo = quasi esprimersi per approssimazione, in modo ambiguo] fu adoperato talvolta nella redazione stessa dei documenti conciliari. Il circiterismo fu allora imposto intenzionalmente affinché l’ermeneutica post-conciliare potesse poi rubricare o nigricare quelle idee che le premevano. “Nous l’exprimons d’une façon diplomatique, mais après le Concilie nous tirerons le conclusions implicites”»
(“Noi l’esprimiamo in modo diplomatico, ma dopo il Concilio tireremo le conclusioni implicite”: è una dichiarazione del «perito» domenicano Schillebeeckx alla rivista olandese De Bazuin, n. 16, 1965). Cosí, ad esempio, il testo della Dei Verbum dichiara in modo inequivocabile che la Santa Chiesa «afferma senza esitazione» la storicità degli Evangeli: «quorum [Evangelorium] historicitatem [Sancta Mater Ecclesia] incunctanter affirmat», ma mons. Galbiati nel suo commento precisa che questo vale solo per la «storia della salvezza» (E. Galbiati, La Costituzione dogmatica della Divina Rivelazione, Elle Di Ci, Torino 1966, p. 255). Donde attinge egli questa sua interpretazione limitativa, che restringe la storicità degli Evangeli alla sola «storia della salvezza», escludendo la storia profana? Dalla successiva affermazione che i Vangeli «tramandano fedelmente ciò che Gesú, Figlio di Dio, vivendo tra gli uomini, fece ed insegnò realmente per la loro salvezza». Dunque – egli ne conclude – i Vangeli tramandarono fedelmente solo ciò che riguarda la nostra salvezza. Cosí, con una espressione sintatticamente trasposta e avulsa dal suo contesto nonché dalla storia della sua elaborazione, il Galbiati vorrebbe limitare anche la storicità (non meno dell’inerranza) alle cose concernenti solo la fede e i costumi!
Rileviamo con il prof. Amerio che «a questo proposito è sommamente importante il fatto che, avendo il Concilio giusta la consuetudine lasciato dietro di sé una commissione per l’interpretazione autentica dei suoi decreti, questa commissione non abbia mai emanato esplicazioni autentiche e non si trovi citata mai. Cosí il tempo postconciliare anziché di esecuzione, fu di interpretazione [quasi sempre arbitraria e faziosa] del Concilio.
«Mancando un’interpretazione autentica, i punti in cui apparisse incerta e questionabile la mente del Concilio, tale definizione fu gettata alle dispute dei teologi […].
«Il carattere anfibologico dei testi conciliari dà cosí un fondamento tanto all’ermeneutica neoterica quanto a quella tradizionale» (R. Amerio, op. cit., p. 88).
E in nota egli osserva: «L’incertitudine del Concilio è ammessa anche dai teologi piú fedeli alla Sede Romana che si studiano di discolparne il Concilio. Ma è chiaro che la necessità di difendere l’univocità del Concilio è già un indizio dell’equivocità sua». […]
HOW THEY THINK THEY’VE WON IN CATHOLIC EXEGESIS
One hundred years after Pope Leo XIII‘s Providentissimus Deus (Nov.10, 1893), and fifty years after Pius XII‘s Divino Afflante Spiritu, (Sept. 30, 1943), the Pontifical Biblical Commission has developed a synthesis of the two encyclicals. Msgr. Gianfranco Ravasi, a spokesman and member of the Pontifical Biblical Commission, presents an outline of this so-called “precious document” being published by the Pontifical Biblical Commission (see the journal Gesù, Oct. 1993, pp.45-50). Ravasi sees Providentissimus Deus, “apologetic” in nature, as the thesis, and Divino Afflante Spiritu, “entirely oriented toward the exaltation of authentic scientific exegesis,” as the antithesis.
While presenting this new document, Ravasi unintentionally casts a shadow over both the reformed Biblical Commission and its members (who are not cardinals as in the past, but exegetes thinking along the same lines as Ravasi):
Incidentally, let us remember that…at the beginning of Vatican Council II, when two Roman ecclesiastics, Romeo and Spadafora [the goodies], launched a virulent attack against the Biblical Institute, they succeeded in bringing about the suspension of two great professors: the Jesuits Lyonnet and Zerwick [the baddies]. Paul VI reinstated them in their teaching functions, and I had the good fortune of being the student of these two extraordinary men of research and of faith….
The Holy Father addresses the solemn convocation commemorating the centenary of Providentissimus Deus and the 50th anniversary of Divino Afflante Spiritu
LET US SET THE RECORD STRAIGHT
Thus, while Ravasi showers unmerited praise upon Zerwick and Lyonnet, whose “faith” was clearly manifested after the Council in their denial of the fundamental truths of Catholicism, he unfairly casts blame upon Romeo and Spadafora. It is therefore fitting, first of all, that the truth be known about Romeo and Spadafora, who are painted in such bad light by Ravasi.
THE CREDENTIALS OF MSGR. ANTONIO ROMEO
Here is what Spadafora himself wrote about Msgr. Antonio Romeo, after the death of the Biblical Institute professor, in Palestra del Clero, (#21, 1978):
Born in Reggio Calabria on June 8, 1902, he [Romeo] completed his secondary studies at the famous St. Michaels’s School in Fribourg, Switzerland, where he learned both German and French. For his theological studies, he went to the Regional Seminary of St. Pius X at Catanzaro, and was ordained a priest on December 20, 1924. In 1927, after completing the course of studies offered at the Pontifical Biblical Institute, he immediately returned to the Seminary at Catanzaro, where he taught Sacred Scripture from 1927 to 1934. Being in great demand in the Dioceses, he was named Pro-Vicar General in Reggio Calabria. On January 1, 1938, at the Sacred Congregation for Seminaries and Universities, he began his studies in Rome, producing an excellent body of hidden work over a period of more than thirty-four years.
In the introduction to his fine work, The Present and the Future in Biblical Revelation (1964, starting on p.xxxiv), Msgr. Romeo writes the following:
My gratitude goes out to the unforgettable students who took my courses at the Regional Seminaries in Calabria. In brotherly collaboration, I spent the happiest years of my priestly life with them examining the Holy Scriptures. I thank them all, and it is to them that I dedicate this volume, which is a faint reflection of Eternal Truth – a Truth which they sought to penetrate and contemplate in Biblical revelation.
In these few lines we catch a glimpse of the supernatural spirit and the keen sense of modesty of this great master. The undersigned was one of those students who, after having finished his theological studies in Catanzaro and Posilipo, followed the path of his venerable master by attending the Pontifical Biblical Institute from 1936 to 1939.
It was to him that I dedicated my first exegetical work, which was the translation and commentary of the Book of the Prophet Ezechiel (1948). In the book’s dedication, I wrote: ‘To my professor, Msgr. Antonio Romeo, to whom I owe my beginnings, as well as my fervor in studying Holy Scripture.” I thus expressed my profound gratitude for having received a solid foundation in hermeneutics, Biblical inspiration, scriptural exegesis, Hebrew, and Biblical Greek.
Members of the Diplomatic Corps accredited to the Holy See
at the solemn convocation
THE CREDENTIALS OF MSGR. SPADAFORA
Concerning Msgr. Spadafora himself, we mention three of his works from amongst many other writings in scientific exegesis and historical criticism:
1) his commentary on the book of Ezichiel, and its translation from the original (Marietti 1948, 357 pages, 2nd ed. 1950). In Revue Biblique (#57, 1950), Fr. R. J. Tournay, O.P., states the following in his review of the commentary:
Next to the commentary itself, which is quite developed, especially in the area of literary criticism, the author has formulated a critical apparatus that sometimes surpasses the importance of the commentary itself. Specialists will find in this work a great number of interesting observations and references. This work deserves to be placed among the best commentaries on Ezechiel.
2) Gesù e la fine di Gerusalemme (Jesus and the Destruction of Jerusalem). This work deals solely with Jesus’ prophecy concerning the destruction of Jerusalem, without any references or allusions to the end of the world. Fr. Benoît, in his review published in Revue Biblique (#59, 1952, starting on p.119), wrote that he found “this exegesis to be excellent,” and he “approved of it completely.” C. Spicq, in Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques (#36, 1951), applauded the work, saying that its “necessity will increase as time goes on.”
3) Pilato(IPAG, Rovigo 1973, 215 pages). Fr. Bernini, SJ., a former professor of Sacred scripture at Gregorian University, wrote the following in his review published in Civiltà Cattolica (March 6, 1976, p.519):
The well-known exegete from the Pontifical University of the Lateran, exercising his extraordinary erudition, and using his skills in examining problems in literary and historical criticism, wished to examine the old problem of Pontius Pilate…
With the goal of establishing the historicity of the Gospel of Matthew, and of demonstrating how the Jewish sources referring to Pilate are without foundation.
The book was written with ease and agility – indeed, with the erudition of a true master.
THE MODERNIST MANIFESTO OF THE PONTIFICAL BILICAL INSTITUTE
Having established the identity of the various persons involved, let us now turn our attention to the facts of the case.
Starting around 1950, the students of the Pontifical Biblical Institute began informing Msgr. Romeo about the “novelties” that some of the Jesuits there were teaching them concerning the nature of the divine inspiration of the Sacred Books. They were taught that inspiration was no longer considered to be personal, but collective, and that inerrance was limited only to passages concerning dogma. Such novelties were closely linked to the acceptance of the latest rationalist systems (Bultmann-Dibelius) of Formengeschichte and Redaktiongeschichte, which were based on the denial of the authenticity and historicity of the Gospels.
At the Institute, Leone Algisi and Luigi Moraldi, both of whom eventually left the priesthood, were among those who boasted about these novelties, claiming that they were taught by Pius XII himself in the Encyclical Divino Afflante Spiritu (1943). These same ideas are now being peddled by Romano Penna, Gianfranco Ravasi, and other former students from the Pontifical Biblical Institute.
MODERNIST SIN ON ORIGINAL SIN
In those years, Msgr. Romeo was a compiler in Sacred Scripture for the Enciclopedia Cattolica. He entrusted the expression “Original Sin” to Msgr. Spadafora, who was a professor at the Lateran, saying, “the students of the Biblical Institute tell me that Fr. Lyonnet has developed an original exegesis for Romans 5:12.” Spadafora then called upon Fr. Lyonnet, his former classmate (1936-1939), who allowed him to read his interpretation of the above passage.
The years passed by, and on September 3, 1960, in La Civiltà Cattolica (pp.449-460), Alonso Schökel, S.J., came up with eleven pages of gratuitous assertions in which he pretended to justify the “novelties” that had already been taught for years at the Pontifical Biblical Institute, attributing them to Pius XII‘s Divino Afflante Spiritu, (which he tried to place in opposition to Leo XIII‘s Providentissimus Deus).
BILICAL INSTITUTE UNVEILS MODERNIST DESIGNS
It was in this manner that the Pontifical Biblical Institute unveiled its designs. Its new program consisted in a radical shift that went against all the directives given by the Magisterium on Catholic exegesis. In this program, the Jesuits at the Institute had adopted the two latest rationalist methods which were then in fashion, pretending that the changes were attributable to Pius XII. They did this by interpreting Divino Afflante Spiritu in their own way, and by ignoring Humani Generis altogether. According to these new systems, all dogmatic principles were pushed aside, Biblical science became purely philological and historical in nature, and the wall separating Catholics and rationalist Protestants was torn down.
THE CATHOLIC REACTION
The reaction of the Roman exegetes took shape in Msgr. Romeo‘s erudite critical study, “The Encyclical Divino Afflante Spiritu and the Opiniones Novae” in Divinitas (#4, 1966, pp.378-456}, in which he states the following:
Today, after the death of the great Pius XII, and with seventeen years of hindsight [since the publication of Divino Affiante Spiritu], Fr. Alonso tells us that there was a novelty, a transformation, introduced by Divino Affiante Spiritu that will: “open up a new, wide path.” We find nothing in the documents of Pius XII and John XXIII…even remotely suggesting that novelties, an opening of doors, or new liberties were conceded by the Supreme Magisterium in 1943.
This was the central theme of Msgr. Romeo‘s article. He wished to demonstrate the continuity of the Supreme Magisterium on the question by examining various documents, beginning with Humani Generis. He then brought forth evidence which had been: “authorized first hand, and which could be called unofficial.” This evidence was the very explicit commentary on Divino Afflante Spiritu by Cardinal Agostino Bea, who was at that time Rector of the Pontifical Biblical Institute. This commentary, which was published in La Civiltà Cattolica (#94, 1943-1944, pp.212-224), seems to have been completely ignored by Fr. Alonso.
In conclusion, Msgr. Romeo wrote that:
…there is therefore absolutely nothing, not even a chance indication of any kind in the Encyclical…, nor is there anything in Cardinal Bea’s authorized commentary that indicates this [and in fact, his commentary was probably authorized, since Fr. Bea was advisor to the Holy Office and confessor to Pius XII. Nothing in these documents could substantiate the opinion being circulated…that this great Encyclical had broken with the previous directives of the Supreme Magisterium, or that it had the intention of giving a new orientation to Catholic exegesis.
In any case, it is clear, for anyone reading Divino Affiante Spiritu, (and it becomes even clearer when studying Humani Generis), that the Biblical Encyclical of the great Pius XII adheres completely to Providentissimus, which it confirms, expands upon, and clarifies on various points; and it is, indeed, through Providentissimus that we are linked to the spirit, the principles, and the norms of uninterrupted Tradition on the veneration of the Word of God, through strict and arduous exegetical work.
Spadafora intervened at this point, writing an article for Divinitas (#2, 1960, pp.289-298), entitled Romans 5:12: Exegeses and Dogmatic Reflections. The article had been requested by Cardinal Parente, assessor to the Holy Office, in response to Fr. Stanislas Lyonnet‘s article “Le péché originel et l’exégèse de Rm. 5:12” (“Original Sin and the Exegesis of Romans 5:12”}, published in Recherches de Sciences Religieuses (Research in Religious Science, #44, 1956, pp.63-84).
As we have already said, Spadafora had examined this document some years before. Upon returning it to Fr. Lyonnet, he brought it to the latter’s attention that the exegesis proposed was untenable, since it was irreconcilable with Catholic doctrine.
In response to Cardinal Parente’s request, Msgr. Spadafora refuted point by point the various arguments put forth by Lyonnet, who tried to prove that the passage from Romans 5:12 (“Wherefore as by one man sin entered into this world, and by sin death; and so death passed upon all men, in whom all have sinned.”) was not to be taken as an affirmation of Original Sin, but to mean, rather, that “all have sinned” in “imitation of Adam.” He would have us believe that this passage refers only to personal sins, whereas the entire context (5:12-20) clearly states that “by the offense of one…many were made sinners.”
There was something even more grievous about the novelties proposed by Lyonnet – namely, that the meaning of Romans 5:12 had already been solemnly defined by the Council of Trent in two canons on Original Sin.
In order to make a judgment in this case, the Holy Office intervened by imposing silence on the two parties, who were asked to present their respective arguments. After hearing both sides, the Holy Office suspended Lyonnet and Zerwick from teaching, and had them leave Rome. Then on June 20, 1961, the Supreme Congregation of the Holy Office published the following Monitum (warning or admonition), primarily in order to defend the historicity of the Canonical Gospels:
While the study of Biblical subjects is being actively developed, opinions and judgments are circulating in various places that endanger the historical and objective truth of Holy Scripture, not only for the Old Testament (something which the Sovereign Pontiff Pius XII had lamented in the encyclical Humani Generis, cf. A.A.S.) but also for the New Testament; and sometimes these opinions even concern the words and acts of Christ Jesus. Since opinions and judgments such as these are of such great concern to pastors and to the faithful, the most eminent Fathers, who are the overseers of the defense and doctrine of the Faith and of morals, have considered it their duty to warn all those who treat of Holy Scriptures, in writing or in speech, to handle such grave questions with the respect that is due to them. They ask that they might take into consideration the doctrines of the Fathers, the mind of the Church and of the Magisterium, so that the consciences of the faithful are not offended.
SAD BUT TRUE
This monitum of the Holy Office, and the measures taken against the Jesuits Lyonnet and Zerwick, should have swept away any modernist interpretations of the Encyclical Divino Afflante Spiritu. It should have given a death blow to those overtures being made to the “history of forms” (Formengeschichte) and to the “history of redaction” (Redaktiongeschichte), which are Protestant in nature, and which spring from the “negation of historical and objective truth” of the “words and acts of Jesus Christ.” On the contrary, the Council, the pontificate of Paul VI, and the period after the Council brought about a complete change of course in favor of modernism.
Paulus
Courrier de Rome, April 1994
BIBLIOGRAPHY
1950 Gesu e la fine di Gerusalemme [24] (Quaderni esegetici). Rovigo: Instituto Padano di Arti Grafiche, 1950, xxii-136 p.
1951 Le tentazioni di Gesu. – PalCl 30 (1951) 337-346
1958 Montevergine: Il Santuario L.anthemis e il “giglio dei campi” di cui parla l’evangelo. [6, 25-34] – PalCl 37 (1958) 1277-1279. [NIA 3, 584]
1961 Le due genealogie di Gesu. – Rossi, G. (ed), Cento problemi biblici, 1961, 305-307.
1961 Sulla Stella dei Magi. Mt. 2,1-12. – PalCl 40 (1961) 946-949; = Id., Attualita Bibliche, 1964, 348-356
1961 La seconda beatitudine nel testo e contesto evangelico. [5,4] – Tabor (Roma) 30 (1961) 101-109.
1976 Leone XIII e gli studi biblici. Rovigo : Instituto Padano di arti grafiche, 1976.
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